Ademar Olivera, pastore della Chiesa metodista, ripercorre l’epoca del regime militare e l’opera che le chiese hanno saputo praticare a favore dei poveri e degli oppressi: i loro “sogni” sono ancora davanti a noi
Ademar Olivera, pastore oggi ottantaquattrenne della Chiesa metodista nell’Uruguay (Imu), è uno dei simboli della lotta per i diritti umani, impegno costato prima la prigione e poi la libertà vigilata per 11 anni durante il regime civile-militare (1973-1985), quindi membro del Servizio pace e giustizia (Serpaj) con il prete cattolico Luis Perez Aguirre, poi presidente del Museo della memoria e della cittadinanza. Nel 2008 è stato dichiarato “Cittadino illustre della città di Montevideo” per la sua lotta a favore della libertà e della democrazia.
– Che cosa ha significato per lei essere un pastore identificato con i poveri e gli oppressi?
«Vengo da una famiglia povera e fin da bambino ho lavorato per aiutarla. Più tardi, quando ho incontrato persone povere come me, che lottavano per superare la loro situazione di sfruttamento, ho preso coscienza dell’ingiustizia che c’era dietro e della necessità di fare qualcosa per superarla. Gli studi biblici, teologici, storici ed ermeneutici mi hanno portato sul cammino di una fede impegnata e critica. E ho trovato nella Chiesa metodista un luogo appropriato per esercitare la mia vocazione pastorale da una prospettiva liberatrice».
– Quali erano le posizioni e il ruolo delle Chiese evangeliche, specialmente della Chiesa metodista, durante il regime militare?
«Nel tempo in Uruguay si sono insediate diverse Chiese evangeliche o protestanti, oggi profondamente radicate nella società. Alcune sono “Chiese di missione”, create dalle loro Chiese “madri” in Europa e negli Stati Uniti, al fine di evangelizzare gli abitanti di questa terra. Altre, chiamate “Chiese di immigrazione”, sono sorte per accompagnare gruppi di migranti stabilitisi nel paese. Durante la dittatura la maggior parte di loro ha continuato le proprie attività, con limitazioni e difficoltà. Il governo aveva instaurato un rigido controllo su persone e istituzioni, per cui la paura si era impadronita della popolazione. In varie Chiese prevalevano indifferenza e scarsa solidarietà, per cui davanti ai prigionieri politici ripetevano “qualcosa devono aver fatto” e “meglio non occuparsi di politica e dedicarsi a questioni spirituali”. Il che portava all’apatia e al silenzio complice. Le autorità dell’Imu capirono che la Chiesa doveva essere coerente coi propri principi e la propria tradizione di difesa dei diritti umani, soprattutto delle vittime. Questa decisione, basata sul mandato evangelico di “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5, 29), generò conflitti interni: una parte dei membri se ne andò, altri, superando la paura, accettarono il rischio di essere etichettati come “sovversivi” o “comunisti”, persino la possibilità di essere arrestati perché aiutare i parenti dei detenuti politici era considerato reato di “assistenza ad associazione a delinquere”. Prendersi cura dei perseguitati, degli esclusi e degli indifesi aveva un costo elevato, ma era un imperativo etico ed evangelico cui non ci si poteva sottrarre».
– Che cosa significa essere metodista in una società laica come l’Uruguay?
«La laicità è divenuta parte della nostra identità nazionale, poiché la separazione Stato-Chiesa risale alla riforma della Costituzione nel 1917, che afferma: “Tutti i culti religiosi sono liberi in Uruguay. Lo Stato non sostiene nessuna religione”. La Chiesa metodista comprende che in un paese democratico e culturalmente e religiosamente pluralista come l’Uruguay tutte le posizioni religiose e filosofiche dei cittadini devono essere rispettate e lo Stato deve proteggerle. La Chiesa, a sua volta, è chiamata a essere “Chiesa nella società, come comunità di fede e come “popolo di Dio”. È la Chiesa stessa che determina la propria forma di organizzazione e definisce la propria missione. La sua collaborazione con lo Stato deve essere critica, costruttiva e pratica in quelle materie in cui ha competenza. La Chiesa rispetta l’autonomia dello Stato e non rivendica per sé un posto privilegiato nella società, ma lo spazio di libertà necessario per compiere la propria missione. Laicità significa rispetto e neutralità dello Stato nel suo rapporto con le diverse espressioni religiose, compresa la Chiesa. Tuttavia, questo principio spesso non è stato rispettato, per esempio quando, nel 1987, in occasione della visita di papa Giovanni Paolo II, il governo gli conferì onori speciali e una grande croce fu eretta in un luogo pubblico».
– Qual è il contributo che la chiesa può dare a questa società?
«Credo che uno dei contributi specifici della Chiesa sia la formazione nei valori, che favoriscono la costruzione della cittadinanza e rispettano il sistema democratico. Vivere in una società democratica, pluralista, laica, fatta di diversità culturali e religiose, richiede a tutti noi di collaborare al compito di sradicare ogni tipo di privilegi e pregiudizi. Perché non c’è più posto per “un solo modo di pensare”. In questo modo costruiremo insieme quella società e quel mondo che sogniamo, con solide basi etiche, di uguaglianza e giustizia, di convivenza armoniosa e pacifica».
Articolo di Mauro Castagnaro da Riforma.it