Forti critiche a Biden da chiese e dalle loro organizzazioni sociali per la gestione afghana

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«Inaccettabile non aver previsto da tempo un piano di evacuazione per coloro che hanno collaborato con le forze statunitensi, ora nel mirino dei Talebani»

La drammatica rapidità dell’escalation della nuova crisi afghana colpisce ovviamente anche tutte quelle organizzazioni religiose e quelle chiese che negli Stati Uniti sono da sempre in prima fila nei progetti di accoglienza. Non mancano nelle reazioni agli avvenimenti in corso in questi giorni nel Paese mediorientale forti critiche all’amministrazione Biden per non aver avviato già da tempo un processo di rimpatrio di tutti quei cittadini afghani che hanno collaborato con le forze statunitensi in tutti questi lunghi anni di presenza militare, e ora finiti nel mirino dei Talebani di nuovo al potere.

I funzionari del Lirs, (Lutheran Immigration and Refugee Service, il servizio rifugiati e migranti della Chiesa luterana in America) hanno seguito con rassegnazione la situazione in rapido deterioramento, sapendo che sarebbe potuta andare diversamente.

Già a maggio, i leader della Lirs, una delle numerose agenzie religiose che collaborano con il governo degli Stati Uniti per il reinsediamento dei rifugiati, avevano inviato una lettera all’amministrazione Biden chiedendo di espatriare i civili afgani (e le loro famiglie) che hanno lavorato con gli Stati Uniti in questi lunghi anni prima del previsto ritiro delle truppe.

Chiunque abbia familiarità con il «labirinto burocratico» che è il processo di visto speciale per gli immigrati del paese sapeva che l’ufficio visti del Dipartimento di Stato non sarebbe stato abbastanza rapido nel rispondere all’urgente necessità di evacuazioni, ha affermato Krish O’Mara Vignarajah, presidente e Ceo di Lirs. «Sono mesi che gridiamo dai tetti che dobbiamo portare questi collaboratori fuori dall’Afghanistan».

Lirs è solo una delle agenzie religiose che hanno chiesto l’evacuazione degli alleati afgani come imperativo morale e stanno lavorando ora per aiutare a portare quelle persone negli Stati Uniti.

«Siamo fermamente convinti che tutte queste persone abbiano combattuto fianco a fianco con noi per 20 anni, e sicuramente possiamo andarcene fianco a fianco», ha aggiunto Vignarajah. Gli Stati Uniti hanno iniziato a evacuare gli afgani circa un mese fa prima di annullare voli aggiuntivi da Kabul a causa di problemi di sicurezza, secondo Jenny Yang, vicepresidente senior per la difesa e la politica presso World Relief, un’altra delle organizzazioni religiose che collabora con il governo degli Stati Uniti nel reinsediamento dei rifugiati.

A giugno, la maggior parte di queste organizzazioni –, World Relief, Church World Service, La Chiesa episcopale e Hias (Jewish Immigrant Aid Society) – avevano esortato il presidente Joe Biden ad attuare piani per evacuare traduttori afgani, soldati, consulenti culturali, impiegati di ambasciata e altri che hanno lavorato con le forze armate americane, i media o le organizzazioni non profit.

Ma mentre i talebani hanno invaso il palazzo presidenziale a Kabul questo fine settimana, due decenni dopo essere stati espulsi dalla capitale afghana dai militari statunitensi, molti di coloro che rimangono nel Paese temono di essere presi di mira proprio per le loro collaborazioni con le forze straniere.

Non è solo «devastante» testimoniare, ha detto Yang, ma anche «deludente vedere quante persone sono lasciate in uno stato molto vulnerabile a causa della rapida presa di controllo dell’Afghanistan da parte dei talebani e delle limitate capacità che abbiamo come governo nelle procedure di evacuazione.

Circa 2.000 afghani e le loro famiglie finora sono stati evacuati attraverso l’operazione statunitense Allies Rescue, ha reso noto Biden lunedì pomeriggio 16 agosto. Ma sarebbero ancora 18.000 i collaboratori rimasti nel paese medio orientale.

Nel suo discorso alla nazione, il presidente ha affermato di essere consapevole delle preoccupazioni sul fatto che gli Stati Uniti non abbiano iniziato a evacuare i civili afgani prima.

«Parte della risposta è che alcuni afghani non volevano partire presto, ancora pieni di speranza per il loro paese. E in parte è perché il governo afghano e i suoi sostenitori ci hanno scoraggiato dall’organizzare un esodo di massa per evitare di innescare, come hanno detto, una crisi di fiducia», ha affermato.

Krish O’Mara Vignarajah di Lirs ha immediatamente replicato definendo l’affermazione secondo cui gli afghani non volevano lasciare il paese «nella migliore delle ipotesi fuorviante. Siamo stati in contatto con innumerevoli persone che hanno cercato disperatamente di lasciare l’Afghanistan per mesi e non sono stati in grado di farlo a causa delle risorse finanziarie insufficienti e dell’inadeguata accessibilità dei voli attraverso le organizzazioni internazionali».

Mark Hetfield, presidente di Hias, l’ente sociale ebraico, ha espresso una frustrazione simile.

«Biden sta incolpando le vittime», ha dichiarato al portale Religion News Service. La maggior parte non è riuscita a superare il percorso burocratico a ostacoli. Il processo sembra progettato per tenere le persone fuori dagli Stati Uniti, non per salvarle. E il governo ha avuto molto tempo per mettere in atto sistemi per facilitare il reinsediamento dei rifugiati senza provocare un esodo. Non hanno fatto questo sforzo e ciò è imperdonabile. Un’operazione simile andava pianificata fin dal primo momento, vent’anni fa. Abbiamo avuto tre amministrazioni successive, e ora una quarta, che non sono riuscite a mettere in atto un piano per salvare le persone vulnerabili a causa delle loro associazioni con le forze alleate. Questo per me è terribile e straziante».

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