Il comunicato della GLAM in occasione del 6 novembre, Giornata Internazionale della prevenzione dell’utilizzo dell’ambiente in guerre e conflitti armati.
Roma (NEV), 2 novembre 2020 – A cura della Commissione Globalizzazione e ambiente (GLAM) della Federazione delle chiese evangeliche in italiane –
Il 5 novembre 2001 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dichiarava la data del 6 novembre di ogni anno Giornata internazionale della prevenzione dell’utilizzo dell’ambiente in guerre e conflitti armati.
Sebbene l’umanità abbia sempre contato le proprie vittime in termini di soldati e civili morti e feriti, città e mezzi di sussistenza distrutti, l’ambiente spesso è la vittima non nominata della guerra. Pozzi sono stati contaminati, derrate bruciate, foreste tagliate, suoli avvelenati e animali uccisi per acquisire vantaggi militari.
Inoltre il Programma della Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) ha rilevato che negli ultimi 60 anni almeno il 40% di tutti i conflitti interni era collegato all’utilizzo di risorse naturali, sia di alto valore come legname, diamanti, oro e petrolio, sia scarse come terra fertile e acqua. Conflitti che coinvolgono risorse naturali hanno anche doppia probabilità di ricaduta negativa.
Le Nazioni Unite attribuiscono grande importanza ad assicurare che l’azione sull’ambiente sia parte della prevenzione dei conflitti, delle strategie di mantenimento e di costruzione della pace, perché non può essevi pace durevole se le risorse naturali che reggono i mezzi di sussistenza e gli ecosistemi sono distrutte.
Il 27 maggio 2016 l’Assemblea sull’Ambiente delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione UNEP/EA.2/Res.15 che riconosce la funzione di ecosistemi sani e gestione sostenibile delle risorse per ridurre il rischio di conflitti armati, e ha riaffermato il proprio forte impegno per il pieno rafforzamento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, elencati nelle risoluzione 70/1 dell’Assemblea Generale dal titolo “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”.
Inoltre, dall’8 all’11 novembre 2020, si svolge la Settimana Internazionale su Scienza e Pace promossa dalla Nazioni Unite dal 1986. Obiettivi di questa settimana sono promuovere la pace internazionale e i diritti umani, la protezione dell’ambiente e la consapevolezza del ruolo di scienza e tecnologia per il mantenimento della pace mondiale e per lo sviluppo sociale.
In questo 2020 disarticolato dalla pandemia, è con emozione che si può ricordare la data di venerdì 23 ottobre che ha consentito alle Nazioni Unite di annunciare la ratifica del trattato che mette al bando gli ordigni nucleari, con entrata in vigore fra 90 giorni. Una data che, a distanza di 75 anni, coincide con il 24 ottobre 1945. Quando cioè entrò in vigore lo Statuto delle Nazioni Unite e che rinnova a distanza di tre quarti di secolo il ripudio per il crimine del bombardamento nucleare contro il Giappone sulla via della resa, il 6 e il 9 agosto 1945, a Hiroshima e Nagasaki. L’intensa mobilitazione dell’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons/ ICAN, insignita del Premio Nobel per la Pace del 2017, ha portato i suoi generosi frutti. È ora compito di cittadin* dei singoli paesi di imporre ai propri parlamenti e governi di aderire a questa scelta di civiltà per cui d’ora in poi la detenzione di armi nucleari non è solo immorale, ma criminale. La strada sarà lunga, in salita, ma da essa non si può tornare indietro. Per noi in Italia, che negli arsenali di Aviano e Ghedi abbiamo un imprecisato numero di testate nucleari stoccate, bisognerà insistere con pazienza e perseveranza. Ricordando anche che queste testate ci rendono un bersaglio. Gli effetti ambientali degli ordigni nucleari sono terribili e di durata secolare.
Ormai da decenni l’area mediterranea e lo spazio verso oriente fino all’Afghanistan sono investiti in modo continuativo da guerre convenzionali, con interventi di stati, e conflitti irregolari di milizie e gruppi non istituzionali. Situazioni nelle quali l’Italia è molto coinvolta. Il territorio è devastato senza pietà e le immagini che giungono, di ordigni, mezzi militari, rifiuti abbandonati nel deserto sahariano, indicano ferite che non si rimargineranno facilmente, in aree che erano rimaste relativamente isolate e protette. Senza parlare di ciò che non si vede, come le bombe scaricate in alto Adriatico a fine del secolo scorso, durante le operazioni militari nella ex Jugoslavia, o le centinaia se non migliaia di soldati contaminati dall’uranio impoverito (ma sempre pericoloso), nella stessa situazione.
In questo scenario dobbiamo ricordare il conflitto in Yemen, nell’ambito della coalizione guidata da Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Qui è stato documentato che armamenti, in particolare bombe, prodotti in Italia e dei quali è stata autorizzata l’esportazione verso paesi della coalizione (quindi in contrasto con le norme ONU che vietano vendita di armi verso belligeranti), hanno investito popolazione civile, contadini con la loro piccola agricoltura, suoli coltivati. Anche qui una nota positiva: è in fase di costruzione, con la partecipazione di chiese tedesche, della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e soggetti locali, un progetto di riconversione produttiva della stabilimento RWM Italia SpA in Sardegna, che produce appunto tali bombe e ordigni.
Nella fatica di organizzarsi nella pandemia, probabilmente non si è prestata la necessaria attenzione a due documenti importanti: uno del Ministero della Difesa, il Documento programmatico pluriennale della difesa per il triennio 2020-2022 e un altro del Senato della Repubblica, l’Autorizzazione e proroga missioni internazionali 2020 (Esame della deliberazione del Consiglio dei ministri del 21 maggio 2020, DOC. XXV n. 3 e DOC. XXVI n. 3, 10 giugno 2020) che tracciano in modo dettagliato e preciso gli indirizzi in materia militare e strategica del prossimo futuro.
La lettura di tali documenti non è del tutto tranquillizzante. Ci sono punti positivi, come una riflessione sul ruolo delle forze armate nella pandemia con proposte di miglioramenti che l’esperienza indica come utili. Ma ci sono anche punti sui quali si può avere qualche dubbio. Viene ribadita la indiscussa adesione alla Nato ritenendo necessario un aumento di finanziamento: in realtà la Nato non gode di buona salute e in ogni caso l’epicentro mondiale ormai è nel Pacifico. Ma si indica come necessaria anche la difesa europea: è ovvio che le due cose non sono compatibili perché gli obiettivi sono diversi. Si ritiene necessario un aggiornamento tecnologico di quello che viene chiamato lo Strumento militare per essere competitivi a livello internazionale. L’avanzamento tecnologico in campo militare vuol dire probabilmente armi e esportazione delle stesse. Infatti si prevede coordinamento con i ministeri economici. Infine si rimane perplessi vedendo il numero molto elevato di missioni estere: di alcune ci si può domandare la ragione. E vedendo le cifre che accompagnano i singoli interventi non si può non avere la sensazione che ci siano interessi economici di una certa consistenza (incluso il doppio salario per chi è in missione) che rischiano di protrarre nel tempo tali missioni. Ora la presenza di eserciti, militari, armanenti ecc. comporta sempre ricadute ambientali non indifferenti. Inquinamento che le strutture militari comportano, disorganizzazione delle comunità locali per pressione sulle risorse locali (alloggi, alimenti, servizi) che fanno lievitare i prezzi, messa in contatto di culture diverse apparentemente senza azioni preparatorie. Sorprende che non vi sia accenno nelle diverse ipotesi di missioni estere alla formazione di personale che sappia le lingue locali, che conosca le culture nelle quali ci si inserisce con la brusca presenza militare che sappia come sono gli ecosistemi locali. Su questo aspetto c’è, sembra, da imparare molto dal modo di operare statunitense che sempre ha mediatori culturali molto preparati.
Nel riflettere sul tema della giornata del 6 novembre, cioè prevenzione di un uso dannoso dei quadri ambientali in situazioni di guerra e conflitto armato, va aggiunto un ulteriore punto. Nei lustri recenti ai conflitti armati si sono affiancate quelle che vengono chiamate guerre ibride: cioè modi di operare volti a combattere o abbattere con tattiche non solo belliche quello che viene considerato un nemico. Alcuni esempi: l’uso delle sanzioni, l’impiego massiccio di notizie false per deformare i processi elettorali, il ricorso manipolato alla giustizia per emarginare avversari. Spesso le guerre ibride hanno conseguenze ambientali molto pesanti. L’embargo e le sanzioni sono la strada maestra per promuovere il contrabbando, ad esempio di petrolio e naturalmente armi, in modo selvaggio: gli esempi non mancano, a cominciare dalle passate vicende dell’Iraq. La manipolazione del processi elettorali non di rado mira a promuovere gruppi che saccheggiano l’ambiente. Anche qui gli esempi non mancano, a cominciare dal Brasile dal 2016 in poi e dalle vicende della Bolivia dal 2019. Insomma, c’è molto da fare per onorare la data del 6 novembre. Certamente buona cosa è ridurre le armi, la presenza di militari e mezzi e moltiplicare il personale preparato in lingue e conoscenze culturali e ambientali, per poter capire e comunicare. In ogni caso, non abbiamo bisogno di nessun nemico”.