Apriti agli altri

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Da Riforma del 18 giugno 2018

Una riflessione sull’accoglienza da parte della chiesa metodista di via XX settembre a Roma

Domenica 17 giugno, dopo il culto, alcuni fratelli e sorelle della comunità, nel pieno spirito dello striscione, hanno fissato sulla facciata della nostra chiesa metodista di Roma, via XX settembre, chiesa dell’unione delle chiese metodiste e valdesi in Italia,  uno striscione che riporta la frase del Levitico «Tratterete lo straniero che abita fra voi come chi è nato fra voi (Lev.19,34)» che commentiamo  «Non aver paura apriti agli altri, apri ai diritti!!»

La nostra è una comunità internazionale: condividiamo la stessa fede tra fratelli e sorelle italiane, filippine, coreane, malgasce, cinesi, ecc.

Una comunità che si educa e impara, giorno per giorno, cosa significhi condividere storie, vissuti, educazione, culture, formazioni, diverse e differenti.

Diversità e differenze che possono e devono convivere in una sinfonia di vite che testimoniano lo stesso Amore per Dio, la stessa vita e il mondo che ci è stato dato.

Dio ci ha creati diversi e differenti, ma nello stesso tempo fratelli e sorelle, figlie e figlie dell’unico Padre.

La scelta, condivisa da tutto il consiglio di chiesa, non è contro qualcuno o qualcosa.

Ci siamo interrogati molto dopo i fatti delle ultime settimane, soprattutto sul clima creatosi e sulle parole pronunciate nella nostra città, sulle paure del diverso, visto come una persona contro, contro la nostra società, che ci toglie, che ci ruba qualcosa, che delinque.

Vedere questo, ci ha portato a giudicare alla luce dell’evangelo e a “agire”.

Agire, cioè scegliere da che parte stare.

È una scelta positiva, non contro, ma a favore di:

  • itinerari che ci liberino  dai pregiudizi profondi che emergono nel nostro vissuto quando incontriamo la diversità
  • una politica che programmi itinerari di accoglienza in difesa di migranti che scappano da fame, guerre e violenze;
  • una quotidianità di inclusione e amore per il prossimo, qualunque prossimo dalla pelle nera, bianca o gialla, o nelle più svariate sfumature.
  • percorsi di integrazione sociale, familiare, culturale che prevedano la valorizzazione di ogni singola specificità e l’abbattimento di quei “sottili, e molte volte nascosti, pregiudizi” che alimentano il razzismo e le paure dentro e fuori di noi
  • modalità di accettazione e arricchimento delle differenze che ogni uomo e donna portano nel loro stesso vissuto
  • un’apertura e un cambiamento sulla strada del dialogo e della convivenza tra popoli e nazioni
  • un’ospitalità che è valore del Regno, che si attualizza oggi nel prossimo straniero in fuga
  • una pedagogia dove discriminazione, frontiera, emarginazione, sono sostituite da accoglienza, integrazione, inclusione, condivisione, dalla prassi evangelica dell’Amore
  •      politiche dove il migrante, uno dei volti dei poveri e degli oppressi di queste nostre società, ci chiama e ci costringe all’ospitalità e alla solidarietà.

Non abbiamo alcun dubbio da quale parte stare: stiamo e staremo sempre dalla parte della persona umana, di ogni uomo e di ogni donna che emigra alla ricerca di pace, di istruzione, di una vita più umana, di ogni donna che scappa dalla tratta, di ogni bambino che scappa dalla fame, da un futuro di violenza e di guerra, dal commercio di organi, dall’essere spose bambine o soldati bambini, di ogni persona che scappa dalla fame, dalla guerra e dalle violenze di ogni tipo. Ma anche dalla parte degli uomini e delle donne italiane lasciate sole nelle loro paure, fomentando continuamente il terrore dell’invasione e del diverso.

Stiamo dalla parte di uomini e donne tutti diversi che per noi assumono lo status di fratelli e sorelle, volto di Dio sulle nostre strade.

E di queste donne e uomini non abbiamo paura, non temiamo per la nostra civiltà, per le nostre città, per il nostro lavoro, ma crediamo che la loro diversità sia ricchezza per tutti noi.

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Pastore valdese e mozzo di bordo

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Da Riforma del 21 giugno 2018

Per la rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” a cura degli operatori e delle operatrici della Federazione delle chiese evangeliche in Italia per Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti, l’articolo di Marco Fornerone che ha vissuto un’esperienza di volontariato sulla nave Open Arms

Sono partito per Burriana dal mattino alla sera, rispondendo all’appello del comandante del veliero Astral, Riccardo Gatti, capo missione della ONG spagnola Proactiva Open Arms che si occupa di ricerca e soccorso nel Mar Mediterraneo. Ho conosciuto Riccardo Gatti durante la serata pubblica in occasione della presentazione del partenariato tra la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e Proactiva Open Arms.

Sono rimasto molto colpito dalla serata e con Riccardo Gatti ci siamo scambiati l’amicizia sui social network. Open Arms era nei miei pensieri da alcuni giorni. Il 2 giugno Riccardo lancia un appello tramite un post in spagnolo e italiano: “Ciao! La Open Arms è ancora in cantiere, stiamo lavorando sodo per poterla rimettere in acqua il prima possibile però abbiamo bisogno di una mano. C’è qualcuno interessato ad aiutarci e lavorare duro per qualche giorno? Prima finiamo e prima ritorniamo a soccorrere!”. Mi sono sentito subito chiamato. Sono arrivato a Burriana e ho fatto quattro giorni sulla Open Arms nel varadero, il cantiere navale. Bassa, bassissima manovalanza, cosa che per me rappresenta un valore. Non ho nessuna competenza specifica per quanto riguarda le missioni di ricerca e soccorso (SAR), non sono un medico, né un infermiere, né un marinaio. Ma ho voluto collaborare a questo progetto e l’ho fatto a terra, in secca, sverniciando, riverniciando, facendo le pulizie, sistemando i magazzini di poppa e di prua.

Ho visto, entrando in contatto con le persone impegnate a bordo, una grande concretezza. Mi ha toccato profondamente. Ho visto ciò che è importante per me come credente. Ho ripensato alla targa dedicata a Riccardo Gatti e a tutti gli equipaggi di Open Arms dalla FCEI, dov’era citata la parabola del buon samaritano. Il samaritano, che è un outsider rispetto alla religione, fa quello che la gente religiosa nella parabola non fa.  Questi volontari fanno quello che io sento essere il cuore di ciò che ho capito del vangelo. Sono molti gli inviti nella Bibbia non solo ad ascoltare, ma a fare.

Intorno a me ci sono state reazioni di sorpresa e di supporto. Soprattutto negli ultimi giorni, in cui è stata più alta l’attenzione pubblica per la vicenda Aquarius, abbiamo sentito molto sostegno. Quando sono arrivato eravamo in pochi, successivamente hanno risposto all’appello una trentina di persone, tra cui diversi cittadini di Burriana. A bordo c’erano persone che si conoscevano da tempo e altri volontari che arrivavano per la prima volta, dai posti più disparati. Eppure c’era un forte senso di apertura, di comunità e reciprocità. Mi sono sentito accolto. Solo alcuni sapevano che sono un pastore, cosa che avrebbe potuto suscitare curiosità, ma anche sospetto, in persone lontane dal nostro mondo. Poi, stupore e apprezzamento hanno avuto la meglio. Certamente, il mio profilo di pastore evangelico, è fra i più strani ricevuti nelle candidature dei volontari.

Sono tornato a casa con un carico di speranza e di grande arricchimento. Per questo ho il desiderio di proseguire in qualche modo: per quel forte senso di comunità, che fa anche parte della vita delle nostre chiese e della nostra vocazione; per andare, vivere, esserci, tutti interi, non solo con il pensiero o con le parole, ma rapportandoci alla fede attraverso le nostre molteplici dimensioni, con il nostro corpo. In fondo, fare ciò che è giusto comporta anche piccoli e grandi rischi. Gesù sulla croce è l’esempio di come vivere radicalmente l’amore per il prossimo. A noi è data la possibilità di vivere una esperienza umana importante. Mi sono chiesto, se c’è da esporsi, chi potrebbe farlo se non un cristiano? Chi, se non un pastore?

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Consultazione metodista 2018

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La recente Consultazione metodista che si è svolta nella tradizionale sede del centro di Ecumene durante l’ultimo fine settimana di maggio è stata ancora una volta un’occasione feconda di confronto e discussione sul senso della propria testimonianza tra i rappresentanti di comunità radicate in diverse aree d’Italia.

(Alberto Bragaglia)
[/et_pb_accordion_item][et_pb_accordion_item title=”La sfida della Connexion” _builder_version=”3.0.106″ title_text_shadow_horizontal_length=”0em” title_text_shadow_vertical_length=”0em” title_text_shadow_blur_strength=”0em” body_text_shadow_horizontal_length=”0em” body_text_shadow_vertical_length=”0em” body_text_shadow_blur_strength=”0em” open=”off”]Ragionare sulla società significa anche ragionare sul senso della propria missione, che assume la complessità e la multiformità come ricchezza. Da molti anni le comunità metodiste e valdesi sono caratterizzata dalla presenza di nazionalità diverse: basti pensare che la chiesa metodista di Milano da sola ne conta ben 16. La sfida è quella di valorizzare le differenze, sfruttando a fondo il concetto di connexion, uno dei capisaldi del pensiero wesleyano, che fin da subito concepì il movimento come una «rete interconnessa» di individui, gruppi, chiese, distretti di chiese. Struttura complessa, ma di grande modernità, religiosamente e socialmente ancor più attuale in un mondo come quello di oggi, iperconnesso da un punto di vista tecnico, ma sempre più atomizzato da quello umano.
[/et_pb_accordion_item][et_pb_accordion_item title=”Ideali e concretezza” _builder_version=”3.0.106″ title_text_shadow_horizontal_length=”0em” title_text_shadow_vertical_length=”0em” title_text_shadow_blur_strength=”0em” body_text_shadow_horizontal_length=”0em” body_text_shadow_vertical_length=”0em” body_text_shadow_blur_strength=”0em” open=”off”]Non solo momenti di discussione generale, ma anche lavori di gruppo, per approfondire aspetti come la ricerca di nuovo senso per le comunità di credenti e di chi è chiamato a governarle; ma anche di una testimonianza che sappia esprimere in modo più concreto l’impegno contro il razzismo, per i diritti dei più deboli, in ogni ambito dell’esistenza.

C’è stato anche il tempo per parlare della situazione concreta delle chiese metodiste italiane: numeri esigui, ma diversi i casi di vivace testimonianza. Per il patrimonio immobiliare, il complicato processo di manutenzione e riqualificazione procede non senza difficoltà: per esempio, i lavori urgenti necessari a Ecumene o l’imponente opera di ristrutturazione dello stabile di Intra, destinato a ospitare un progetto di housing sociale. 
[/et_pb_accordion_item][et_pb_accordion_item title=”Comunità di senso, senso di comunità” _builder_version=”3.0.106″ title_text_shadow_horizontal_length=”0em” title_text_shadow_vertical_length=”0em” title_text_shadow_blur_strength=”0em” body_text_shadow_horizontal_length=”0em” body_text_shadow_vertical_length=”0em” body_text_shadow_blur_strength=”0em” open=”off”]Costruire il futuro in un mondo in trasformazione, agire fuori dalle proprie mura

Il nostro modo di pensare al futuro è cambiato. Abbiamo la possibilità di ripensarci e di rimetterci in gioco più di quanto le generazioni dei nostri nonni abbiano mai desiderato fare. Se lo stereotipo dell’uomo anni ‘50 è desideroso di trovare un lavoro stabile e bene pagato e di metter su famiglia, guardando al futuro, nel 2018 desideriamo trovare un lavoro che rispecchi la nostra formazione e le nostre aspirazioni, da costruire cogliendo diverse opportunità in Europa e oltre, conoscendo altre culture, consapevoli che potremo o dovremo cambiare lavoro più volte nel corso degli anni sperimentandoci in diversi ambienti indossando vesti diverse. Questi tempi ci chiedono capacità di adattamento e di flessibilità, di essere costantemente concentrati sulla costruzione del nostro futuro! La chiesa dov’è in questa costruzione continua di noi stessi e noi stesse? Le chiese sono riuscite a mantenere la loro capacità consolatoria, offrendo un sostegno fondamentale in situazioni così precarie e perciò fragili. Questa fragilità però ci richiama continuamente alla ricerca di lavoro, correndo contro il tempo per fare l’esperienza giusta al momento giusto e le associazioni e le realtà collettive in genere sono inevitabilmente secondarie, seppure interessanti anche tra noi uomini e donne protestanti. Che cosa ci aiuterebbe a ridare senso alla nostra chiamata che è «comunitaria»? Se la nostra speranza fosse presente proprio nella nostra identità di chiese in riforma? La disponibilità alla trasformazione che questi tempi ci chiedono può adattarsi alle nostre chiese. Per iniziare una trasformazione c’è bisogno di essere consapevoli del punto di partenza, dell’identità. Essere perciò chiese attente alla formazione, a insegnare tra generazioni il nostro modo specifico di vivere la fede e coltivare le nostre specificità diventa il primo passo. Proporre, poi, un orizzonte entro cui poter attuare queste trasformazioni, per avere uno spazio sicuro entro cui le nostre fragilità possano essere tutelate: divenire «comunità di senso», cioè avere il coraggio di offrire delle risposte alle domande di senso della vita. È importante che questa domanda di senso resti sempre aperta per non perdere la nostra capacità di ascolto e di recepire la novità. È importante anche essere capaci di offrire una risposta nel presente, per non restare immobili.

Alla Consultazione metodista abbiamo individuato nella «città» il nostro orizzonte comune: muovendoci all’esterno delle chiese e conoscendo quello che è fuori dalle nostre mura possiamo ritrovare il nostro senso di comunità. La città è il luogo in cui esercitiamo il nostro ministero di cristiani e cristiane, senza modificare il nostro modo sobrio di porci, ma consapevoli della bellezza delle nostre chiese e dell’alternativa che proponiamo. Un’alternativa semplice ma in questo momento essenziale: fare rete, tra chiese, con le associazioni, tra noi. Una rete che sia capace di allargare le sue maglie il più possibile, perché la chiamata che Gesù ci ha rivolto è collettiva, è rivolta a un popolo di donne e uomini in cammino nel mondo (Mt 28) che possano con le loro parole, con i loro sguardi e con le loro azioni restituire la speranza di prospettare un futuro insieme agli altri, di condividere i problemi e cooperare alla loro risoluzione.

 Francesca Litigio
[/et_pb_accordion_item][et_pb_accordion_item title=”Formazione di leader e gruppi” _builder_version=”3.0.106″ title_text_shadow_horizontal_length=”0em” title_text_shadow_vertical_length=”0em” title_text_shadow_blur_strength=”0em” body_text_shadow_horizontal_length=”0em” body_text_shadow_vertical_length=”0em” body_text_shadow_blur_strength=”0em” open=”off”]Formazione di leader e gruppi: una tradizione metodista che ci appartiene

Espressione molto in voga in ambienti internazionali ecumenici è Leadership Training, la formazione dei leader – parola che in italiano, per motivi storici, manteniamo in inglese –, formazione che deve essere necessariamente affiancata da un lavoro di Group Building, di costruzione dei gruppi. Anche se nelle nostre chiese queste espressioni sono vissute come contaminazione dal mondo politico e aziendale, estranee alla nostra ecclesiologia, in realtà fu proprio una delle nostre tradizioni a rilanciare i concetti moderni di Leadership Training e Group Building.

Nel Settecento, infatti, fu John Wesley, fondatore del Metodismo, a lanciare una struttura ecclesiale la cui anima pulsante fosse il gruppo guidato da un capogruppo. Nel processo di ri-umanizzazione delle masse industrializzate dell’epoca, il gruppo metodista fu talmente importante che i primi partiti di sinistra e i sindacati si strutturarono analogamente, con le sezioni e le cellule.

Forse alle nostre chiese non sempre piace usare questi termini perché si è un po’ persa la memoria. Tuttavia, l’incontro con metodisti originari da altri paesi ha risvegliato l’attenzione sulla necessità di avere gruppi, comunità, chiese e relativi responsabili ben formati.

Non è una novità: si tratta solo di riscoprire qualcosa che, in buona parte, già facciamo bene, e che non dobbiamo trascurare in tempi in cui le forze e le risorse sembrano scarseggiare.

Alla Consultazione, a un certo punto, ci si è posti una domanda: se non fosse proprio questo il nostro talento? Ci sono cose, infatti, come a esempio la classica evangelizzazione di strada, che molti di noi vivono con disagio, in maniera impacciata, cose che altri sanno fare meglio. Ci sono cose invece, come i momenti di formazione che, invece, tutto sommato, riusciamo a mantenere a un buon livello.

Concentrarsi allora sul nostro talento, formare, discernere i doni dei fratelli e delle sorelle, aiutarli a farli fruttare: questo è sempre più necessario. E poi, magari un giorno, riusciremo a proclamare l’Evangelo in piazza, senza impaccio, con il sostegno dello Spirito.

Peter Ciaccio
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Incontro fra Papa Francesco e la rappresentanza del WMC del 19 ottobre 2017

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